“Nei periodi di crisi la mafia si muove cercando di investire il più possibile. Dopo il primo lockdown in una Firenze stremata dal covid, e dal conseguente azzeramento del turismo, molte attività in difficoltà hanno ricevuto chiamate per richieste di cessioni dell’attività, di quote societarie. Lo fanno semplicemente tramite intermediari come commercialisti o studi legali, oppure anche direttamente: il contatto arriva da fondi finanziari o società. Dietro, spesso non si sa chi c’è e di chi sono i soldi. E’ la “zona grigia” che impegna di più Guardia di Finanza e Direzione Investigativa Antimafia: metodi leciti per operazioni che lecite fino in fondo non lo sono perché nascondono operazioni di riciclaggio. Anche nei momenti di crisi, chi ha sempre soldi e liquidità, sono le mafie e queste fanno affari.
Mi spiega Sara Lucaroni, giornalista aretina, saziando una mia curiosità riguardo un suo articolo per l’Espresso dove scriveva di infiltrazioni mafiose in Toscana. Lucaroni, ha firmato reportage e inchieste per L’Espresso, Avvenire, Speciale TG1, SkyTG24. Ha lavorato come inviata per il programma “Fuori Onda” su La7 ed “M” di Michele Santoro, in onda su Rai e ha anche realizzato alcuni reportage in Iraq e Afghanistan.
Sara, tutto è iniziato un po’ di anni fa facendo la cronista presso varie emittenti della zona, sia nella valdichiana aretina sia ad Arezzo: cosa ti ha insegnamento il giornalismo locale?
Come spesso si dice mi ha insegnato a “stare sulla strada”, citando Papa Francesco “consumate la suola delle scarpe”. Insomma “stare sul pezzo”, cercare e approfondire la notizia, relazionarsi, coltivare le fonti, insomma: vivere fuori dalla redazione che è un po’ l’anima del giornalismo. Ma ricordiamoci anche l’altro lato della professione: un giornalista deve studiare tanto e sempre, a partire dalla conoscenza dei suoi doveri deontologici.
E com’è arrivato il salto di qualità?
Secondo te c’è una differenza qualitativa tra testate locali e testate nazionali? Secondo me il giornalismo è una questione di metodo: conta saper fare bene il proprio lavoro, non conta se ti occupi di notizie locali o inchieste. Cambia magari la difficoltà, ma il metodo è quello. Comunque nel 2011 sono arrivata a Tv2000 a Roma – pensa che si trattava di una sostituzione estiva! – e lì ho iniziato a lavorare per un Tg nazionale e a realizzare i primi servizi sulle primavere arabe, ad esempio sulle proteste di piazza Tharir in Egitto. Finita l’esperienza la passione per gli esteri è rimasta: ho preso un volo per Malta a inizio 2014 per incontrare i profughi siriani rimasti sull’isola dopo i terribili naufragi di fine 2013. Non lavoro più in tv, il contratto era scaduto. Ho aperto un nuovo capitolo della mia vita professionale. E’ allora che ho realizzato il mio primo reportage a Malta, con una macchina fotografica prestata da un mio caro amico che mi incoraggiava tanto. Da lì a poco si sarebbe intensificata la mia collaborazione con Avvenire, per il quale di fatto ho iniziato occupandomi soprattutto di flussi migratori.
E dopo sono arrivati i reportage in medio oriente
Il 2014 è stato l’anno di svolta per me. Dopo Malta, a settembre, mi arriva la chiamata dal kurdistan iracheno di un combattente della minoranza yazida, una popolazione curdofona che vive nel Sinjar, tra Siria ed Iraq a nord. Era la popolazione rapita e decimata dallo Stato Islamico che aveva occupato quei territori, e questo combattente mi chiede aiuto, dicendomi che “i bambini non hanno nemmeno le scarpe”. Ho iniziato quindi a scrivere pezzi quasi quotidiani per Avvenire su quello scenario di guerra: sì, una svolta, non solo per la mia professione ma anche per la mia vita, è stato intenso sotto il profilo personale e professionale. Poi, quando ci sono state le condizioni di sicurezza sono partita e ho raggiunto i combattenti. Era il 2015 e da lì ho firmato reportage per Avvenire, L’Espresso e Sky Tg24. Ero l’unica giornalista italiana presente in quel momento nell’area. Nel Sinjar sono tornata anche negli anni successivi per raccontare l’evolversi del genocidio della minoranza Yazida, intrecciatosi con alcune delle fasi più cruente della guerra siriana e il fenomeno dell’espansione dell’Isis.
E arriviamo a parlare del tuo altro filone di interesse, il giornalismo investigativo: nel 2021 è uscito “il buio sotto la divisa”, dove affronti le morti misteriose tra le forze dell’ordine, specie i suicidi. Direi che è un libro che ha smosso un po’ le acque
Non si parla volentieri di questo tema: sia perché il suicidio è un argomento tabù sia perché si parla di forze dell’ordine che sono, tra virgolette, dei sistemi chiusi, nel senso che è difficile capire certe dinamiche se non si vivono in prima persona: pensiamo alle regole dell’ordinamento militare, le pressioni a cui sono sottoposti, il carico psicologico. I numeri delle morti sono inquietanti e tante questioni meritavano di essere approfondite; pensavo questo fosse solo un libro di nicchia e invece è finito sulla libreria di molti e ti dirò di più: in tanti via mail o attraverso i social mi hanno inviato per mesi segnalazioni di situazioni controverse vissute in prima persona.
Il ritorno del fascismo è forse tra i grandi leitmotiv della storia italiana, in molti, anche intellettuali di spessore, paventano questo rischio. Nel tuo ultimo libro, “Sempre lui, perché Mussolini non muore mai” hai deciso di affrontare questo tema spinoso, qual è la tua tesi?
A mio avviso non c’è il pericolo di ritorno del fascismo, come invece suppongono storici che ho intervistato nel mio libro come Luciano Canfora. Penso tuttavia che ci sia il riproporsi di forme e “atteggiamenti” fascisti nella società, comunque pericolosi: pensiamo all’attacco squadrista alla sede della CGIL o al proselitismo e le azioni violente anti-sistema di certi movimenti che si definiscono neo-ascisti. Ma per “fascismo” di ritorno io intendo violenza, rifiuto della società multiculturale, sovranismo, omofobia, rifiuto della giustizia sociale. Inoltre, quando si parla di fascismo dovremmo fare attenzione con questa etichetta: è stato un fenomeno tutto italiano, con la sua storia e con le sue caratteristiche, e dunque non sono troppo d’accordo quando si applica a fenomeni, diciamo, non “occidentali” o quando si affibbia l’aggettivo “nazista” alla Russia che attacca l’Ucraina.
Ci sono tante forme di dittature, nazionalismi, autocrazie, dovute talvolta ad una “crisi” dei valori democratici. Ad esempio, tornando alla Siria, il regime di Assad viene talvolta definito “fascista” ma io sono più incline a definirlo tale nei metodi e non nella dimensione puramente politica. La Siria, come la Turchia o la Russia, hanno storie “geopolitiche” peculiari.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Per adesso mi occupo di inchieste italiane. E poi chissà, se ci fosse la possibilità di tornare in Medio Oriente…
Luca Amodio